Zucchero e il palcoscenico del mondo
di Paolo Talanca
Migrans: l’edizione 2018 del Premio Tenco – è ormai risaputo – ha come tema una parola dai diversi significati. Non si riferisce soltanto ai migranti veri e propri, ma a tutto ciò che riguarda l’attraversamento di confini. Nessun argomento sarebbe stato più urgente in questo periodo e, traslando per metafora coerente, nessun artista più significativo di Zucchero avrebbe potuto ricevere il Premio Tenco alla carriera di quest’anno.
“Altro che figlio dell’Appennino, trattasi di Migrans a tutto tondo. Ha invaso con le sue canzoni i territori più ambiti e meno frequentati dalla canzone italiana. Il suo successo ha riguardato non solo i paesi e i mercati latini e dell’est Europa, tradizionalmente più prossimi a noi, ma ha conquistato anche quelli anglosassoni e nord-americani, i più difficili e ostici. Nel riuscirci, si è inserito di prepotenza nel ristretto gotha degli artisti internazionali.”
Così recita la motivazione ufficiale del Club.
Se si dovesse provare a spiegare la poetica e lo stile artistico di Zucchero, ciò che sta alla base della sua trasversalità, dunque anche del suo successo internazionale, probabilmente non si potrebbe prescindere dalla schiettezza del personaggio.
Zucchero ha compreso – in realtà credo che certe doti siano innate – che la canzone è un atto comunicativo diretto, che permette di far passare, senza mediazioni, le intenzioni di chi canta a chi ascolta. Lo è tanto su disco, quanto a decine di metri di distanza in uno stadio verso centomila persone. Si avvicina molto a qualunque altra interazione a due, uno di fronte all’altro. A volte si usano molti stratagemmi poetici, ma bisogna capire dove si può arrivare per non risultare artefatti; altre volte c’è molta musica, ma bisogna capire che non si deve esagerare, per non risultare distanti o inessenziali. E, quando due persone si parlano, la bontà della discussione è data dal linguaggio condiviso, dal vissuto di entrambi, dal bagaglio culturale, dalle esperienze di vita dai valori che i due si portano dentro. C’è tutto questo dentro a una discussione; c’è tutto questo dentro a una canzone.
Far diventare canzone la propria spontaneità, però, non è affatto semplice. Ci si deve anzitutto spogliare il più possibile della vanità, lasciare da parte il proprio ombelico, il risentimento fine a se stesso, ch’è motivo di provincialismo di chi vuole dimostrare d’essere il più bravo a casa sua: magari con chi a inizio carriera gli sbatteva le porte in faccia. Non è facile comprendere che la popular music è disciplina ampia, che si abbevera di ciò che risiede nella condivisione tra uomini: il ritmo, il rito più vicino a una magia bianca, una celebrazione corale, una liturgia, un gesto difensivo e apotropaico che spesso non ha linguaggio e prescinde da confini convenzionali.
Si tratta di padroneggiare i meccanismi della musica e della comunicazione, di grandi temi culturali condivisi, come fanno i titoli “Oro, incenso & birra” o “Spirito DiVino”, che sono giochi di parole che sfruttano l’universalità dei rimandi religiosi e li “piega” a qualcosa di più terreno, etimologicamente mondano. Non basta affidarsi al blues o allo spirito del soul. Non basta collaborare con Joe Cocker: brani come Rispetto o Senza una donna negli anni Ottanta sfidavano l’impervio compito di non risultare goffi con testi italiani su sonorità dinamiche e internazionali. Le canzoni non solo stavano in piedi, ma arrivavano spedite come frecce ben indirizzate.
È in questa scia che vanno inserite le commistioni pionieristiche tra una voce moderna e quella di un tenore: fare ciò vuol dire aver capito che la penna con la quale si scrive una canzone è composta di un inchiostro formato da tutta la tradizione musicale e culturale che una comunità e un popolo intero possiedono, lanciata sul palcoscenico più ampio possibile che possa riconoscerne i lineamenti. Nessuna tradizione musicale italiana è più conosciuta del melodramma; nessun patrimonio culturale italiano è più solido del cristianesimo. Fu così che nacque Miserere, con Luciano Pavarotti. E il palcoscenico adatto a Miserere, per forma e contenuto, era il mondo intero. La versione inglese fu tradotta da Bono degli U2. L’album vendette più in Europa che in Italia. Da lì, in pratica, nacque la carriera di Andrea Bocelli.
Tutti questi motivi hanno fatto sì, negli anni, che Zucchero fosse sempre più stimato dai migliori. Non si contano le collaborazioni: da Eric Clapton a Joe Cocker, da Sting a B.B. King o Miles Davis, non avrebbe senso fare un elenco.
Migrans, dicevamo; intesa come chi attraversa i confini, questa parola cucita su Zucchero risulta naturale com’è naturale comunicare tramite musica e parole.
Ciò che rende prezioso il suo lavoro è inoltre il fatto di aver compreso che la canzone è un oggetto altissimo e bassissimo, allo stesso tempo; anzi, per dirla meglio, lo è in modo unisono. Zucchero sa che la canzone è un’arte popolare che scuote – se fatta bene e con intelligenza – anche gli spiriti più sensibili, i palati più esigenti e raffinati dell’arte musical-letteraria. La magia sta nel saper miscelare gli elementi: come si emozionerà l’ascoltatore su una particolare timbrica strumentale, come bisogna usare un ritmo che ribatte e veicola un’espressione estremamente verbosa e concettuale, o un modo di dire fulmineo che viene dalla terra. L’urticante e infinito verso “Solo una sana e consapevole libidine salva il giovane dallo stress e dall’Azione Cattolica”, oppure “Il mare (impetuoso al tramonto salì sulla luna e dietro una tendina di stelle…)” – con la riuscitissima citazione di Piero Ciampi –, l’istantaneo “Chocabeck” o il “Per colpa di chi?” che si dissolve in un’onomatopea, dentro a una canzone, si fanno riconoscimento, simbolo, segno unico di empatia e comprensione immediata.
Non è affatto semplice saperlo fare, ed è un meccanismo che coinvolge allo stesso modo un islandese e un abruzzese. È, in definitiva, una peculiarità rara, un talento, uno dei principali motivi che spiegano il successo internazionale di Zucchero, il quale, senza sfruttare la trita icona romantica e melensa di troppo pop italiano, da anni colpisce al centro.
Se il significato di “canzone d’autore”, nella sua accezione storica primigenia, si riferiva alla scrittura scarna e sottrattiva di un pianoforte o una chitarra e una voce – con un’attenzione particolare al messaggio, alle parole, alla poetica –, nel tempo la sua forza ha fatto sì che diventasse antonomasia di canzone d’arte: canzone che non è scritta e prodotta per esclusivi fini commerciali, anche se può felicemente essere compatibile con essi. Oggi lo status di cantautore che fa canzone d’autore è universalmente riconosciuto anche a chi funge da regista delle proprie canzoni. È anche colui che sa intraprendere delle scelte artistiche attraverso delle collaborazioni importanti, e che però sappia esprimere allo stesso tempo una poetica esclusiva nello sguardo d’insieme, a lavoro finito. È così che succedeva per esempio nel cinema della nouvelle vague francese, che derivava proprio dal concetto di auteur theory. Su questa strada sembra indirizzata da anni anche l’accezione di “canzone d’autore” del Premio Tenco, che d’altra parte per certi argomenti non applica semplicemente linguaggi e concetti riguardanti questo genere musicale: li indirizza e concorre in maniera decisiva all’accordo tra significante e significato. In quest’ottica, e per tutto quanto scritto sopra, il Premio Tenco alla carriera a Zucchero è più che mai meritato.
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