Presentazione Gianna Nannini per il Premio Tenco 2019 – rivista IL CANTAUTORE

Quella che segue è la mia presentazione del Premio Tenco 2019 Gianna Nannini, pubblicata su il Cantautore, rivista ufficiale del Club Tenco, nel numero di quella stessa edizione.

Gianna Nannini e la coerenza d’autrice del Tenco degli esordi

L’attenzione del Club Tenco per le canzoni di Gianna Nannini non nasce certamente oggi. Anzi, il Premio 2019 alla carriera non è che il coronamento di un percorso lunghissimo, che parte sin dal 1976. La cantautrice senese allora aveva solo 22 anni e pubblicava il suo primo, omonimo disco per la Ricordi. Dentro c’erano brani che parlavano di realtà, vita vera e cruda, naturalmente plasmati da un’autorialità femminile. Il quell’occasione, le pagine della rivista che avete in mano – tramite la penna di Enrico de Angelis – descrivevano l’artista come “una ragazza di Siena dagli studi colti, in particolare di pianoforte, che mette in musica riflessioni intellettuali su temi perenni come la fantasia, la solitudine, la memoria, la comunicazione con se stessi e con gli altri, sviluppandoli in interessanti e ambiziosi testi letterari”.

Attenzione: siamo nel pieno della stagione aurea della canzone d’autore italiana (della “nuova canzone” come viene definita anche al Tenco), quando il cantautore viene percepito come una sorta di poeta con la chitarra, praticamente sempre maschio. L’anima mostrata agli esordi da Gianna Nannini è in effetti esemplarmente d’autore. Il passo in più però è dato dal fatto che il suo stile si caratterizza per una poetica fiera, una scrittura che esula dall’usanza precedente e successiva, purtroppo comune a molte autrici, di scrivere con uno stile maschile.

Gianna Nannini canta sin dal primo disco l’emancipazione femminile, riscontrabile principalmente nei temi sessuali come in Ti avevo chiesto solo di toccarmi. Le descrizioni sono chiare e comprensibili, senza particolari metafore, e il tutto gioca sulla percezione di due diverse sensibilità.

Sono di questo periodo alcune canzoni caratterizzate da una spiccata e cruda poetica, in particolare Morta per autoprocurato aborto: “La stanza tua piena di fiori / e due coltelli i testimoni di un rito che non ha padroni, / un rito – l’unico rimedio – a libertà negate, a volontà spezzate. / E in mezzo al sangue lei, per terra, vinceva la sua guerra / senza parlare, senza accusare dei suoi tre mesi / di dolore, di rancore, di timore”. Il brano si inserisce senza alcun dubbio nel filone formale e contenutistico che lo statuto del Club Tenco chiama “poetico realismo”. Le immagini sono forti ed emblematiche e vengono cantate con voce accusatoria su un pianoforte che ha l’unico compito di sorreggerle e porgerle di modo che siano inequivocabili e pungenti: “Dov’è il coraggio di continuare a dar la vita / tra le macerie, se la gente non ci sente più? / […] Cos’è successo? / Che cosa resta adesso? / Che cosa suono io? / Le grida spaesate, le mani morsicate sue”. Il canto si conclude in un grido disperato senza soluzione. Nel testo ci sono ovviamente accenni alla mancanza di una legislazione sull’aborto, nel passo in cui si citano le “libertà negate”: la legge arriverà solo nel 1978 e in quel periodo diversi cantautori scriveranno su questo tema. Uno degli esempi più celebri è quello di Guccini, che con Piccola storia ignobile (Via Paolo Fabbri ’43, EMI, 1976) sempre nel 1976 denuncia lo stesso tipo di mancanza, ma ovviamente lo fa da uomo, usando l’ironia e il sarcasmo: il brano di Guccini però, per quanto pregno di un dettato poetico con trovate felici e convincenti, non rilascia la stessa suggestione della voce sconfortata di Gianna Nannini, ovviamente più credibile perché, in maniera verosimile, sembra arrancare e sentire essa stessa la tragica situazione della protagonista.

Credo sia importante soffermarsi su questo primo disco e sul primo incontro tra la cantautrice e il Tenco, perché ci si rende conto di come l’artista senese abbia davvero contribuito a consolidare l’armamentario grammaticale della canzone d’autore italiana. Per di più, la sua parabola artistica è fondamentale anche nel periodo successivo, che definirei “applicativo”, quando cioè dagli anni Ottanta in poi molti cantautori storici hanno applicato linguaggi musicali il più delle volte rock, ma anche pop o jazz, a una poetica strutturale formata da testo-armonia-melodia.

Gianna Nannini non fa eccezione. Dopo quel lontano 1976, è tornata al Tenco altre tre volte e in maniera curiosamente cadenzata (1980, 1989, 1996: la prima Rassegna senza Amilcare). Man mano che le sue presenze si succedevano, la sua popolarità aumentava in maniera esponenziale. Ecco: l’autenticità artistica della Nannini, cioè l’aderenza a se stessi di chi segue la propria necessità di esprimersi in canzone e non la scadenza discografica, è testimoniata dal fatto che i maggiori successi vengono fuori tutti dall’intreccio degli elementi che ci sono sempre stati nella propria poetica.

D’altra parte, già in quel primo 1976, per descrivere le doti di scrittura si tirava in ballo l’esaltazione di uno stile personale dotato di “eccellente senso musicale” espresso “con melodie di bella enfasi, una voce concitata, roca e aspra, un tocco assai personale sul pianoforte”. Sono parole adatte a descrivere tutti i maggiori successi che Gianna Nannini ha inanellato nel tempo, soprattutto nelle canzoni dagli anni Novanta in poi, con la ricerca accurata e decisa di un ritornello cantabile che potesse far esplodere una timbrica roca e inconfondibile, sempre in un dettato poetico colloquiale: c’è spesso un “tu” nelle canzoni della Nannini, a cui l’io si rivolge senza infingimenti, come succedeva agli inizi. Le canzoni sono sempre chiare, inequivocabili, dal linguaggio semplice ed essenziale, ma ciò che emerge in questi brani più maturi è il contrasto tra una “voce concitata, roca e aspra” e dei contenuti di dolcezza che da una cantante rock e scapigliata non ci si aspetterebbe. È uno degli elementi più interessanti del genere, che per esempio funzionano benissimo anche in Vasco Rossi, quando il rocker montanaro un po’ bolso, sfatto e grossolano costruisce delle nicchie di tenerezza come in Albachiara o di orgogliosa rivendicazione di dignità come in Sally. Quel contrasto funziona, e sia in Vasco che nella Nannini risulta persino travolgente.

Mi riferisco ovviamente a brani come Meravigliosa creatura (1996), Aria (2002), Sei nell’anima (2006) o Ogni tanto (2010). Sono canzoni che certa parte della critica troppo frettolosamente ha incasellato nel pop o nel pop-rock. Invece, e i documenti del Tenco stanno lì a provarlo, quello “stile Nannini” è poetica personale presente già da quel lontano 1976, che dopo aver contribuito a formare un certo modo di intendere la canzone attraverso il sentiero del poetico realismo, si è incanalata in una strada applicativa nella quale si può riconoscere quella di alcuni fra i più importanti cantautori italiani.

Un conto è rincorrere un’icona che funziona e replicarla perché si sa che il già sentito è anche commerciale. Un altro è restare fedeli a una propria poetica, imponendo per proprio conto un preciso stile d’autrice riconoscibile nel tempo.

Foto copertina di Rober Berthod