Intervista a Giovanna Marini. Soprattutto il futuro.

Roma, 12 dicembre 2017

Ho incontrato Giovanna Marini poco prima della sua lezione alla Scuola Popolare di Musica di Testaccio. Era l’occasione per consegnarle il mio libro sul Canone dei cantautori italiani, in cui l’ho ovviamente inserita. Ne è uscita una chiacchierata d’altri tempi; tempi che ciclicamente torneranno, perché dentro hanno il respiro naturale delle stagioni. Soprattutto il futuro.

Sentirla parlare è un piacere: mai gratuitamente ideologica, è suggestivo ascoltare una persona con la sua storia artistica e culturale riflettere in maniera disarmante dell’incomprensibilità delle leggi del mercato musicale, dell’importanza delle persone, con quella competenza e umiltà che hanno solo le grandi artiste. Buona lettura.

 

Cos’è per Giovanna Marini la canzone d’autore? Io credo che il suo stile rappresenti il caso più importante nella storia italiana di felice unione tra la canzone d’arte e l’approccio popolare alla musica.

Già il termine canzone presuppone ciò che i tedeschi chiamano il lied, quindi ha una forma ben precisa, sempre combinata, codificata. Su questa strada, può essere anche una piccola opera, intera, con un principio, uno sviluppo e una fine. La canzone popolare però di solito non è canzone, quando è veramente popolare: è un canto contadino. Ha tutt’altra origine, è rituale, è fatto di altre cose.

La canzone invece è la forma in cui ci siamo cimentati in molti: ognuno ha portato la propria cultura dentro a questa forma; e anche se uno voleva fare il cantore politico, era molto evidente la sua origine lontana dai centri della protesta.

Su certe cose io non posso però emettere giudizi, perché per me l’unica cosa interessante della canzone è l’autenticità di chi canta.

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Ecco a me il discorso dell’autenticità interessa molto. Per me non è solo il dire la verità nelle canzoni, ma riguarda l’aderenza tra quello che dici e la capacità di saper mettere assieme la forma che usi per dirla. È un concetto molto vicino a quello che si usa nelle aste, quando si autenticano i quadri. In questo senso, si torna all’autorialità come centro motore della canzone d’arte.

Sono d’accordo con lei. Anche l’esecuzione credo sia importante: il cantore scrive ma esegue anche le proprie canzoni. È interessante sentirle eseguite da altri, ma quando le esegue lui c’è bisogno di una mancanza di sotterfugi, e questo fa la differenza. Altrimenti il canto non passa. Quindi gli abbellimenti vocali che possono essere a volte non sentiti ma usati come chiave per affascinare il pubblico, a me danno fastidio. Non li sopporto.

È molto difficile fare una canzone, questo forse la gente non lo sa. Le parole devono “scivolare” nella musica, quasi avessero dettato la musica stessa. Siccome le parole hanno le vocali, sono cinque e gli accenti li puoi mettere solo lì, servono per guidare la melodia. È una sapienza compositiva che va osservata. Se la parola non scivola dentro, lo senti. Poi c’è chi queste cose non le fa coincidere di proposito; anche quello è interessante, ma dev’essere significante.

 

Capita a proposito questa sua affermazione. Nel mio libro Il canone dei cantautori italiani io analizzo un suo brano che è I treni per Reggio Calabria. Lì mi sono reso conto che in questo viaggio, tra mille insidie per via degli attentati fascisti, la musica rispetta i ritmi del testo in alcuni punti, quando si vuol far capire la felicità solidale di chi vuole andare a far valere le proprie ragioni. Poi, nei momenti più concitati e pericolosi, le parole sono in totale controtempo con le note…

Sì, a me interessa molto questo. Devo dire che è spontaneo nel momento in cui scrivi; dico anche che non capisco come possa accadere. È difficile che ci si metta lì e ci si imponga di scrivere una canzone. Me lo dice sempre De Gregori questo, ma lui va in giro con dei fogli di carta dove scrive ciò che gli viene in mente. Perché la lotta è con le parole, che devono essere musica. Se uno invece si abbandona a mettere per iscritto il fondo dell’Unità o del Manifesto, come succedeva nel ’68 o ’69, nella contestazione dura, non va bene. Lo facevano però, e si sentiva subito un disturbo, come fossero cose volgari. Concetti magari altissimi, ma orribili.

In questo momento sto scrivendo una canzone sul paese di Riace, in Calabria, quello dei bronzi, dove il sindaco ha regalato le case ai migranti e questi sono arrivati in massa. Ed è stato interessantissimo quello che è successo; il parroco ha capito la situazione e addirittura ha diviso la chiesa in due. Sono cinque o sei mesi che la sto scrivendo, ma è complicatissimo. Per fare una cosa che dura poi cinque o sei minuti. Per scrivere I treni per Reggio Calabria ci ho messo due anni. Ci metto tempo se è una cosa a cui tengo: soprattutto il futuro.

Quando faccio solo musica scritta, invece, ad esempio il requiem, ci metto molto meno. Perché se devi scrivere solo la musica, se davanti a te hai solo il pentagramma, diventa una cosa più artigianale.

Il motivo forse sta nel fatto che, anche se la scrivi, la canzone è sempre un fatto orale, dunque molto più impegnativo. Non puoi usare sotterfugi, non puoi usare una tromba che ti salva tutto perché il suo timbro spopola.

 

Anche perché la canzone la devi eseguire davanti a un pubblico, magari anche da solo?

Esatto: la devi eseguire da solo. Quindi ti devi misurare nella cosa che scrivi. Per questo secondo me molti cantautori a un certo punto si appoggiano a un gruppo. Quando con De Gregori è arrivato Guglielminetti, la sua musica è cambiata. Anche se le sue note sono le stesse, e questo denota grande onestà. Ecco, in quei casi l’arrangiamento è molto importante, mentre io mi sono sempre rifiutata di fare arrangiare molto i pezzi, perché già la parola mi pare brutta. Bisogna fare, non arrangiare! [ridiamo n.d.r.]

Io scrivo la canzone con gli accordi, e poi me la suono da sola. Non so se è per un fatto aristocratico: io ogni volta che sento una canzone di questi bravi cantautori cantata voce e chitarra mi piace di più. Per esempio io non mi ero mai accorta di quanto fosse bravo Battisti. Me lo dicevano tutti, ma io non lo sentivo. Poi un mio amico me le ha cantate chitarra e voce e subito ho sentito della buona musica.

 

Questa predilezione per la struttura delle canzoni a discapito dell’arrangiamento oggi credo sia tornata importante, perché le ingerenze produttive dei discografici praticamente si sono molto ridotte: i dischi non si vendono più. E riporta la canzone più vicina alla letteratura. Pasolini diceva che c’è differenza tra un libro e un film: perché è impossibile fare un film senza un produttore, mentre il libro lo si può fare con carta e penna. La canzone così torna più simile a un libro. Non trova?e8bc57_303aa124415341df8a82a302f2a15e53

C’è però anche un problema di diffusione della canzone, e d’altra parte c’è anche per il libro. Non ho ancora capito chi la regola la diffusione. Certo, la diffusione è la regola d’oro dei discografici: quando te la fanno sentire dieci volte al giorno, tu la canzone la accetti. Ma certe canzoni come Contessa si sono sparse da sole. Noi non avevamo mica fatto il disco, eppure un po’ per il testo, un po’ per la situazione, la sapevano tutti; ma anche per la facilità della melodia, così nata bene. La canzone dovrebbe essere libera di volare da sola: io sono sicura che una canzone come Azzurro sarebbe diventata importante anche senza arrangiamento. Paolo Conte, d’altra parte, capisce la musica e così riesce a essere autonomo dalle mode musicali del momento.

Però la diffusione è importante. Il mio è un caso particolare, perché il mio editore sembra quasi non interessarsi alla distribuzione: a me va a genio, e io sto con lui. Si chiama Valter Colle, è friulano, ha fatto tutti i miei dischi dal 1990 in poi. Praticamente non li conosce nessuno; lui li vende solo su iTunes. Se gli chiedo di venderli quasi si offende. È un collezionista! Ma stiamo sulla stessa lunghezza d’onda, perché io non vado mai in televisione, non faccio cose che mi portano fatica perché fuori dal mio mondo. C’è Radio Tre, che qualcosa fa. A me quello basta, mi dà soddisfazione.

Però capisco che chi fa canzone dovrebbe agire in un altro modo, per questo ho molta ammirazione per De Gregori, che si sottopone a quella che per lui è una vera tortura, per mettere in vista il suo lavoro.

 

A proposito di televisione, c’è un libro di Alan Lomax, L’anno più felice della mia vita, in cui lui fa un viaggio in Italia e registra le varie realtà particolari delle musiche popolari italiane. Il viaggio è stato fatto nel 1954. Da allora Sanremo sembra aver appiattito tutto in Italia e fatto credere alla gente che la musica rappresentativa di un intero popolo sia quella smielata del Festival. Questo ha fatto sì invece, a mio parere, che noi oggi non abbiamo musiche vicine davvero al carattere del popolo, come succede in Spagna, in Germania, in Inghilterra. Lei, che conosce il libro e Lomax lo ha conosciuto bene di persona, che ne pensa di questa lettura?

È successo perché l’animo nostro è un animo provinciale. Perché noi per uscire ci mettiamo vestiti bene. Sanremo è l’abito buono, l’abito della festa. Tutto nasce da un senso di inferiorità che hanno tutti gli italiani (non ho mai capito perché). È come se pensassimo di vivere in un stato permanente di inferiorità culturale e di poterlo coprire con i telefonini, le pellicce e via dicendo. Forse l’Erasmus adesso ha cambiato qualcosa. Lo vedevo quando insegnavo a Parigi. Questo vuol dire che se l’italiano va all’estero e conosce il mondo poi capisce molte cose. Quindi questo forse è rassicurante per il futuro.

 

Foto tratte da www.giovannamarini.it

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