Franco Battiato nel canone letterario dei cantautori. Due esempi: Prospettiva Nevsky e Povera patria

Il seguente capitolo è tratto dal mio libro Il canone dei cantautori. La letteratura della canzone d’autore e le scuole delle età (Lanciano, Carabba, 2017, pp. 268-273).

Franco Battiato pubblica il suo primo disco, dal titolo Fetus, nel 1971, ma è del 1979 il suo esordio con un album dove si esprime stabilmente attraverso la forma-canzone: L’era del cinghiale bianco. I ben otto dischi precedenti si compongono di sperimentazioni elettroniche: Battiato parte dalla ricerca del suono assoluto, con brani che indagano la possibilità di una disciplina formale totale, veicolata a doppio filo con dei contenuti rigorosi che vanno dal sufismo alle idee di Georges Ivanovič Gurdjieff.

Come scrive molto bene Annino La Posta:

Un ruolo primario giocano gli arrangiamenti. Nelle canzoni di Battiato la veste musicale è inscindibile dal testo e dalla melodia: ne è parte integrante, non semplice commento. Senza, la canzone perderebbe una parte che riveste un’importanza pari se non maggiore rispetto a quella degli altri due elementi.[1]

È talmente vero che non sarebbe sbagliato rintracciare in Battiato il principale rappresentante dell’accezione d’antonomasia di canzone d’autore: cioè di tutti i modi di fare arte tramite la forma-canzone, al cui interno l’accezione pura di canzone d’autore non è che una possibilità, che ha avuto talmente tanta fortuna da dare il nome all’intero insieme di cui fa parte. In un eventuale canone di quella forma espressiva, Battiato sarebbe sicuramente il centro.

E allora perché compare in questo che è un canone letterario della canzone d’autore? Perché la figura di Battiato è un punto di riferimento tale che i momenti in cui ha inserito nei dischi brani in cui la sola struttura formata da voce-melodia-armonia basta a se stessa, rappresentano delle vette altissime di uno degli aspetti più importanti della sua poetica e del suo stile (che anche in quel modo spoglio fa scuola): il rigore formale. Due esempi su tutti: Prospettiva Nevsky (Patriots, EMI, 1980) e Povera patria (Come un cammello in una grondaia, EMI, 1991).

Prospettiva Nevsky racconta, attraverso ricordi mitici, una situazione verosimile della San Pietroburgo della prima metà del Novecento, in cui Gurdjieff e il suo gruppo operavano: idee tanto care a Battiato, che si stagliano limpide e rappresentano in maniera decisiva la sua poetica. Questo è l’elemento fondamentale che lo stile di Battiato consegna al canone letterario: questo brano rappresenta lo studio, l’applicazione che non è possibile eludere per arrivare a una forma artistica degna di significato e sensibilità di linguaggio. Questo atteggiamento, più consono alla musica classica che alla popular music, dal cipiglio inflessibile, mancava nella canzone d’autore ma di certo il suo codice lo possedeva in potenza; ed ecco che in questo periodo maturo Battiato riesce a introdurlo. Leggiamo un passo del brano:

E studiavamo chiusi in una stanza

– la luce fioca di candele e lampade a petrolio –

e quando si trattava di parlare

aspettavamo sempre con piacere.

E il mio maestro mi insegnò

com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire.

Il rigore rappresentato da questo brano del 1980 Battiato lo persegue per quasi dieci anni; poi dagli anni Ottanta applicherà le proprie competenze, giustapponendo in una comunicazione d’impatto e orizzontale le sonorità e gli stilemi pop, dell’elettronica, della classica e della canzone d’autore. Dopo dieci anni di sperimentazione vuole mettersi alla prova e capire se, con le conoscenze fin qui accumulate, è in grado di realizzare musica per un pubblico più ampio. Prima però bisogna fissare tutto quel rigore in qualcosa di assolutamente spoglio, quasi a realizzare una canzone tematicamente programmatica e che, come detto, farà scuola. E il cantautore catanese sarà davvero un capostipite nel creare brani pop, ballabili, riflessivi e colti, procurandosi un gradimento trasversale per ciò che riguarda i gusti del pubblico, dando sempre prova di essere sicuro delle proprie competenze.

Lo stile di scrittura del testo di Battiato poi rappresenta molto bene il pastiche postmoderno; un esempio lo ritroviamo in un brano del 1981, Bandiera bianca (La voce del padrone, EMI, 1981). La canzone esprime dei contenuti che si pongono alla metà esatta tra l’approccio popular e quello colto, stigmatizza certi comportamenti intellettuali ostentati e si rivela anche un brano premonitore sin dai primi versi:

Mister Tamburino non ho voglia di scherzare,

rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare.

Siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro.

Per fortuna il mio razzismo non mi fa guardare

quei programmi demenziali con tribune elettorali.

Avete voglia di mettervi profumi e deodoranti

siete come sabbie mobili, tirate giù.

All’inizio ci si riferisce al protagonista di un brano di Bob Dylan del 1965, Mr. Tambourine man (e abbiamo visto, nel paragrafo su De Gregori, quanto sia importante l’ondata di novità apportata da brani come questo), e con esso a tutto un modo di intendere le questioni sociali, l’intellettualismo della musica, prefigurando il riflusso degli anni Ottanta a cui anche qui abbiamo accennato. Lo sguardo è quello dello snob che riesce a denunciare lo stesso atteggiamento snob, condito di una lucidità d’analisi e di sintesi fuori dal comune.

Questo tessuto testuale negli anni Ottanta preparerà l’altra grande canzone d’autore letteraria che abbiamo citato prima: Povera patria, del 1991. Questa volta Battiato è molto caustico con il mondo della politica. Qui il rigore formale di Prospettiva Nevsky si trasforma in rigore morale, per una canzone inequivocabile e orizzontale:

Povera patria!

Schiacciata dagli abusi del potere

di gente infame, che non sa cos’è il pudore,

si credono potenti e gli va bene

quello che fanno e tutto gli appartiene.

 

Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni!

Questo Paese è devastato dal dolore!

Ma non vi danno un po’ di dispiacere

quei corpi in terra senza più calore?

Una canzone in cui la dialettica tra voce e accompagnamento di pianoforte è essenziale, dove l’armonia è funzionale all’inequivocabilità del tutto: l’attacco è senza fronzoli e la musica indugia su un accordo tonico ripetuto, cosicché l’intenzione musical-letteraria rimanga ferma e il testo possa esprimere senza fraintendimenti immagini fortissime: «Povera patria!/ Schiacciata dagli abusi del potere/ di gente infame che non sa cos’è il pudore» (così anche nei luoghi simmetrici, cioè nell’inizio della successiva strofa: «Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni!/ Questo paese è devastato dal dolore!»). Come si vede, anche la sintassi segue la scansione metrica del verso e l’incedere giambico (U–U–) riproduce l’andamento della poesia epica e d’invettiva.

Quando ci sarà il primo accordo differente da quello tonico, su «si credono potenti» (che, anche qui, si ripete in maniera identica nella seconda strofa, e con lo stesso atteggiamento), l’intenzione linguistica si farà sommessa, quasi disperata ma conserverà sempre estrema dignità, ed è qui la melodia a muoversi verso quest’esigenza espressiva, con note più lunghe e cantilenanti che scandiscono proprio i tempi forti del giambo («si-crè-do-nò-po-nti), tanto da rendere l’accusa amara – fra l’altro mossa un anno prima dalla scandalo di Tangentopoli del 1992 –, sempre nell’ambito di una rivendicazione di decoro civile.

[1] A. La Posta, Franco Battiato. Soprattutto il silenzio, Firenze, Giunti, 2010, p. 79.