Francesco De Gregori. San Lorenzo: analisi di una canzone
Quello che segue è un estratto dal mio libro Il canone dei cantautori italiani. La letteratura della canzone d’autore e le scuole delle età (Carabba, Lanciano, 2017, pp. 232-236), pubblicazione della mia tesi di dottorato in italianistica. Lo inserisco anche in riferimento a questo mio articolo precedente, che riguarda la cronaca e la storia nelle canzoni, i riferimenti dell’autore e l’interpretazione critica. Il brano di seguito in questione, inoltre e soprattutto, per via della forma pressoché impeccabile, è emblematico per capire come in una canzone fatta bene testo e musica non si possano mai prendere in considerazione singolarmente.
La canzone è San Lorenzo, dell’album Titanic. Si parla di un fatto storico preciso: il bombardamento di Roma del 19 luglio 1943 da parte degli americani. Leggiamone le prime due strofe:
Cadevano le bombe come neve
il diciannove luglio, a San Lorenzo.
Sconquassato il Verano
dopo il bombardamento,
tornano a galla i morti
e sono più di cento.
Cadevano le bombe a San Lorenzo
e un uomo stava a guardare la sua mano:
viste dal Vaticano
sembravano scintille;
l’uomo raccoglie la sua mano
e i morti sono mille.
Nella prima strofa la descrizione è oggettiva, persino espressionista nei termini ‘sconquassato’ e nel crudo ‘bombardamento’. In questo passo l’incedere del dettato testuale è caratterizzato da versi brevi, funzionali al taglio cronachistico, con gli accordi musicali che governano la sintassi e ne scandiscono i nuclei semantici: ognuno dei tre settenari «sconquassato il Verano/ dopo il bombardamento,/ tornano a galla i morti» presenta accordi di IIm e V7, che servono da cesura e svincolo sintattico, attirando l’attenzione e la tensione dell’ascoltatore. Il pianoforte di accompagnamento si dimostra attento a riprodurre il nervosismo crudo delle parole e, vagamente didascalico, negli accordi di passaggio tra i versi presenta grappoli di note discendenti, che agiscono per imitazione evocando proprio il bombardamento.
Dopo che De Gregori ha così preparato l’ascoltatore, con la tanto fredda quanto evocativa esposizione dei fatti, la seconda strofa si apre all’analogia e alla metafora, conservando però ovviamente le istruzioni musicali della prima, che danno senso di tensione e indirizzano il tutto. L’uomo che «stava a guardare la sua mano» è Pio XII e qui De Gregori gioca con la potenza assente di alcune frasi fatte, senza mai citarle: si descrive l’immobilismo del papa, rimandando a frasi abusate come ‘tenere le mani in mano’ o ‘lavarsene le mani’, che si insinuano nella testa dell’ascoltatore ma non vengono mai esplicitamente dichiarate. La mano è quella del papa, quella delle benedizioni e questo acuisce il paradosso e il senso di ingiustizia. Dopo aver ulteriormente preparato l’ascoltatore con questo meccanismo del rimando alle frasi fatte, l’autore costruisce i settenari brevi su accordi IIm-V7 della prima strofa sulla medesima falsariga anche nelle parole, col Vaticano al posto del Verano a fine verso. Qui però la descrizione non è oggettiva, bensì metaforica, come a rappresentare la condizione di chi sta lontano dal pericolo, non immerso nel guado orrendo e distruttivo della Storia, ma colpevolmente in salvo.
Il passo dell’uomo che «stava a guardare la sua mano» attiva in lontananza anche la frase fatta dello stolto, che guarda la mano di chi gli indica la luna, come a sottolineare la distanza aristocratica tra le bombe vere e la tranquillità irreale, inumana papalina. Nel solo gesto di raccogliere la mano (e ‘raccogliere’ è un verbo di certo non casuale, che evoca una sorta di macabra mietitura), per di più, l’orrore si compie, perché le bombe che scendono su San Lorenzo in quel breve lasso di tempo fanno passare il conto dei morti da «più di cento» della prima strofa ai «mille» della seconda. In tutto nel solo quartiere di San Lorenzo saranno circa millecinquecento.
Anche in questi brevi versi della seconda strofa la musica agisce da induttore semantico, fa da collante e completa il significato; mentre la voce di De Gregori infatti srotola le metafore che descrivono il papa, spettatore lontano dal disastro, la musica e i grappoli di note discendenti che evocano il bombardamento vengono riproposti fatali e terrificanti tra un settenario e l’altro: l’ascoltatore non può non percepire lo scollamento tra la realtà della povera gente e quella del papa.
Sullo sfondo, agisce sicuramente anche l’idea della figura discussa di un papa come Pio XII[1], da più parti accusato di non essersi opposto al nazismo e di non aver mosso un dito (almeno ufficialmente) per aiutare gli ebrei nel rastrellamento di Roma, che ci sarebbe stato di lì a pochi mesi. Ecco perché – grazie a questa preparazione musical-letteraria e a questo accumulo di significati –, quando nelle strofe successive al ritornello De Gregori descriverà lo stesso papa, che a termine del bombardamento si recherà al quartiere San Lorenzo e scenderà da solo tra la gente, assumendosi la responsabilità di defensor urbis, la scena non convincerà del tutto, così come quel gesto non ha affatto riabilitato la figura storica dello stesso papa.
Avevo deciso di cantarlo e suonarlo in diretta molto semplicemente, dando precise intenzioni alla voce e un modo facile al pianoforte che avrei potuto far suonare a Locasciulli per avere un lavoro fatto bene, più arricchito. Invece volevo essere io, con il mio modo di essere.[2]
La voce, le parole, il particolare arpeggio di pianoforte, la successione armonica, i topoi verbali e quelli che descrivono la storia nell’immaginario collettivo, con cui il brano entra in rapporto dialettico: tutto diventa inscindibile per arrivare al significato musical-letterario di una canzone completamente d’autore.
[1] Va da sé che in questa sede non è minimamente mia intenzione entrare nel merito storico dei fatti realmente accaduti. Qui entra in gioco esclusivamente l’idea dell’autore della canzone di come la figura di papa Pacelli sia rimasta nell’immaginario collettivo per diversi anni. È con essa che De Gregori si rapporta: con l’immagine che secondo lui è presente nel senso comune, elemento fondamentale per un oggetto artistico come la canzone.
[2] F. De Gregori, “Ciao 2001”, intervista con M. L. Giulietti, 1982, ora in E. Deregibus, Quello che non so lo so cantare, Giunti, Firenze, 2003, p. 130.
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