Deborah Kooperman e Francesco Guccini. Bologna, le osterie e la musica intorno

Deborah Kooperman è una musicista statunitense che vive in Italia dalla fine degli anni Sessanta, periodo in cui arriva a Bologna per via di una borsa di studio. Prima di allora aveva vissuto a New York, a Greenwich Village, posto in cui ha conosciuto molti dei principali musicisti del tempo, tra cui Bob Dylan. La sua musica e la tecnica del fingerpicking (suonare la chitarra con le dita, senza plettro, con una modalità molto suggestiva), conosciuta e perfezionata proprio a New York, saranno fondamentali per certe atmosfere musicali dei brani di Francesco Guccini, che incontra a Bologna alla fine degli anni Sessanta e con il quale collaborerà fino al 1978.

Deborah dunque rappresenta qualcosa di davvero importante, perché quello stile ha significato molto non solo per Guccini, ma per una intera generazione di cantautori che si ispiravano a un certo modo di intendere la musica dell’east coast statunitense, di una certa narratività e di un certo mondo.

Mi è sembrato perciò importante poterla intervistare per il mio libro su Guccini che sto scrivendo per Hoepli e che uscirà in autunno.

Buongiorno Deborah. Partiamo dall’inizio: quando è arrivata in Italia?

Era il ’68 e studiavo pianoforte e pedagogia musicale negli Stati Uniti. La mia università mi diede l’opportunità di venire in Europa. Scelsero Bologna perché pensavano che fosse una delle città più tranquille: evidentemente non sapevano cosa stesse arrivando. Era il settembre del 1968.

Quando ha conosciuto Francesco Guccini?

Era il 1969, suonavo a Bologna in un concerto organizzato dall’Università Johns Hopkins. Era una domenica pomeriggio, lui era tra il pubblico e io ho cantato tre o quattro canzoni. Lui non ha cantato quel giorno, ma poi ci siamo conosciuti e mi ha chiesto di insegnargli la tecnica del fingerpicking. Lì è nata l’amicizia.

D’altra parte, per le sue prime canzoni, era stato fondamentale già Bob Dylan…

Esattamente. Dove De André è stato più influenzato dai francesi, Francesco deve molto alla musica statunitense.

Sì anche perché è una tecnica che permette di essere molto narrativi. Da lì in poi è partita dunque la vostra collaborazione?

Sì. Mi chiese di suonare nel suo secondo album, Due anni dopo. Ho suonato in quasi tutti gli album, fino alla canzone Eskimo. Qui ricordo un aneddoto divertente legato a Pier Farri, il produttore di Francesco di allora. Io suonavo nel mio modo, che deriva come abbiamo detto dall’east coast. Pier durante la canzone mi chiese di suonare invece in stile west coast, che era un’altra cosa: Berkeley, Crosby, Stills e Nash, Joni Mitchell, quel modo lì, che non era il mio. Ricordo benissimo, eravamo a Bologna e stavamo provando Eskimo con Francesco all’Osteria la Luretta. E Pier continuava a dirmi: «Non devi suonare New York, devi suonare California». E io: «Ma Pier, io non sono della California, sono di New York». Era una persona un po’ stravagante Pier, ma simpatica.

Sì che poi fa il paio con uno degli aneddoti raccontati da Francesco, in cui Pier Farri chiedeva un suono “più giallo” negli arrangiamenti di Stanze di vita quotidiana del 1974…

Ecco sì, hai capito. Ora, magari “suona più California” è già più descrittivo, ma “giallo” non so proprio cosa voglia dire [ridiamo, n.d.r.]. Ma io ricordo con molta simpatia Pier Farri.

Poi da Due anni dopo del 1970 come è proseguita la vostra collaborazione?

Come ho detto, negli anni abbiamo collaborato spesso. Erano anni molto prolifici, ricordo per esempio che anche Francesco fece una versione di Suzanne, di Leonard Cohen, che però non è mai stata pubblicata. Lui mi diceva che io non avevo bisogno di un gruppo, perché sono “una purista”, così diceva. Ma io invece a lui dicevo che aveva bisogno di un gruppo per la sua musica. Così, quando ho conosciuto Flaco, glielo presentai. Fui io a presentare Flaco a Francesco.

Come andarono le cose?

Io e Flaco suonammo insieme in una festa dell’Unità. Lui suonava con un gruppo che si chiamava Los Santos. Flaco era ovviamente (ed è) molto bravo e piacque tantissimo a Francesco, il quale è un poeta, che si accompagna adeguatamente con la chitarra. Ma da quando ha cominciato a collaborare con alcuni musicisti le sue canzoni hanno avuto una svolta anche dal punto di vista commerciale; Flaco è uno di questi.

Da quei primi anni Settanta nella vostra vita entra anche l’Osteria delle Dame, no?

Sì certo. Anzi, ritengo un grande onore esserne tra i soci fondatori, perché mi coinvolse Padre Michele Casali.

Ecco, a me interessa questo: io credo che quei luoghi – le Dame e non solo – certi posti fossero fondamentali per le canzoni e la poetica di Guccini perché Francesco “provava” letteralmente la reazione del pubblico lì. E lì il rapporto con il pubblico era diretto, vicinissimo, intimo, quindi si capiva molto bene se una canzone funzionava o no. Lei che ne pensa?

Sì certo è vero. Prima delle Dame andavamo in un’osteria di fuori porta, che poi si sarebbe chiamata Osteria del Moretto, allora gestita da un certo Gandolfi, un signore anziano. Stavamo lì a bere, a suonare fino a che non ci cacciavano, alle due di notte. Ci divertivamo molto. C’ero io, c’era Francesco, c’era un cantautore greco che si chiamava Alex. Per esempio lì nacque Primavera di Praga, perché quei fatti successero in quel periodo e Francesco ci fece su una canzone che piacque subito molto a tutti.

E tutto questo poi si è trasferito all’Osteria delle Dame?

Sì, perché poi, quando è nata, andavamo lì quasi tutte le sere. Probabilmente il momento più assiduo di Francesco è stato dal ’70 al ’74 più o meno. Anche lì si beveva, si giocava a carte, si mangiava un panino e si suonava. Era una vera osteria, non come quelle di adesso che sono tutt’altro. Dopo un paio di anni hanno anche aperto una scuola di musica nei piani superiori. Io ci insegnavo la chitarra.

Vi esibivate spesso all’Osteria delle Dame lei e Francesco?

Ah certo. Francesco, già da Gandolfi, mi ha insegnato molte canzoni popolari, toscane, bolognesi e cose così. Alle Dame suonavamo quando c’erano concerti, ma anche negli altri giorni eravamo lì a suonare.

Poi ha smesso di venire spesso?

Sì a un certo punto smise di venire così spesso. Veniva ogni tanto ma non assiduamente. Una cosa bella comunque è che quando ci fu un concerto per le Dame all’inizio degli anni Novanta, dopo la chiusura, vennero molte persone: sia artisti conosciuti come Francesco o Lucio Dalla, ma anche non professionisti, che comunque alle Dame si esibivano negli anni Settanta. C’è stata una ragazza americana, la Kitty, che tornò appositamente dall’America per quella serata lì. È una cosa che ricordo con molto piacere.

Alle Dame sono passati davvero in molti…

Ah sì. Io ricordo Paolo Conte, poi Piero Ciampi. C’è molta storia lì dentro.

Oggi comunque lei suona ancora no?

Sì, faccio dei concerti, anche se la mia attività principale è la gestione di un negozio di strumenti musicali. Faccio comunque concerti e sto portando in giro uno spettacolo dal titolo New York Days, in cui racconto il mio periodo di vita lì, dal ’61 al ’68: quella città per un certo modo di intendere la musica era il centro del mondo. Poi recentemente ho pubblicato un libro per l’insegnamento della musica ai bambini, dal titolo Get on board, per Progetti Sonori, che fa libri didattici per le scuole.

Vi vedete ancora con Francesco?

Sì, poco ma ci vediamo a volte. Io quando capito dalle sue parti vado a trovarlo a Pàvana.